LA COSTRUZIONE PARTECIPATA DELL'IMMAGINE
LA COSTRUZIONE PARTECIPATA DELL'IMMAGINE
(METODO SPERIMENTALE DI FOTOGRAFIA TERAPEUTICA)
Il progetto riguarda la realizzazione di un book fotografico di sequenze di ritratti che hanno origine da una serie d’incontri in cui, insieme al paziente, costruisco immagini, partendo dal racconto di un suo particolare vissuto doloroso e lavorando sull’emozione che scaturisce nel ricordare questo specifico momento di vita. Si tratta di dare una struttura visiva all’emozione stessa, creando uno spazio fotografico dentro il quale lo stesso paziente si colloca, in una precisa area e con una particolare postura che diventa il racconto dello stato d’animo avvertito nel rimembrare il suo momento di sofferenza.
Dopo questa fase di ideazione condivisa dell’immagine, il mio lavoro professionale di fotografa procede con l’allestimento di piccoli set fotografici, costruiti con l’ausilio di diversi materiali, in cui ambientare le performances e nella realizzazione di nuove fotografie che vanno a completare il resto della rappresentazione.
Segue infine, l’assemblaggio di tutti quegli elementi che costituiscono le varie scene: un lungo e impegnativo lavoro di postproduzione con l’ausilio di specifici programmi digitali di elaborazione dell’immagine. Queste fase di messa in opera della fotografia è seguita e verificata costantemente insieme al paziente, fino a che l’immagine così ottenuta non corrisponda completamente all’immagine ideata. Ciò affinché il paziente possa compiutamente riconoscersi ed appropriarsi dell’immagine stessa.
Questa attività è stata sperimentata con risultati molto interessanti non solo all’interno di interventi psicoterapici, ma anche come percorsi di training e di formazione personale.
PROGETTI
PROGETTI
…Rivedo la mia storia su un monitor più grande di me, c’è il vuoto attorno e io cammino verso l’immagine proiettata…
Giulia
…Io sono il suo popolo, sottomesso, che ama e odia il suo re, che lo rinnega o che sta dalla sua parte…
Alice
…Troppi incastri sbagliati… la sofferenza è il forte rumore stridulo della frenata di un treno…
Beatrice
…Rincorro la figura che sarò nel groviglio di meschine incomprensioni…
Sebastiano
…Io, un puntino nel grande universo, sola, in ginocchio, dentro uno scatolone dalle pareti sfondate..
Giovanna
…Ci sono tante valigie, rosse, arancio, gialle e verdi. Io ci sono sdraiata sopra e dormo rilassata, molto rilassata…tutto sparisce… Soltanto io e il silenzio…
Federica
“…non mi pare esagerato affermare che il lavoro che si svolge al confine tra preconscio e inconscio costituisca il nucleo di ciò che per un essere umano significa essere vivo. Quel confine è il luogo in cui avviene l’esperienza del sogno e della rêverie; in cui ha origine ogni tipo di gioco e creatività in cui germogliano l’intelligenza e il fascino che poi (come se venissero dal nulla) trovano sbocco in una conversazione, una poesia, un gesto o un’espressione del viso; è il luogo in cui nascono quelle situazioni di compromesso che non smettono mai di tormentarci, che ci svuotano della nostra linfa vitale e limitano la nostra libertà offrendoci in cambio un po’ d’ordine e un’illusione di sicurezza”.
Thomas .H.Ogden, Conversazioni al confine del sogno, 2001.
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Per terapeuti e pazienti è sempre molto complesso poter avvicinarsi a esperienze tristi, amare, luttuose ed insieme attraversarle. Il lavoro di cura, a tratti, si ferma davanti a massicce resistenze impedendo quella rinarrazione delle esperienze traumatiche che permette da un lato la testimonianza della verità di quel dolore e dall’altro l’avvio della guarigione stessa.
In questi frangenti, allora, l’uso di questo metodo risulta assolutamente prezioso: ciò che non può avere parola fluisce attraverso queste immagini che accompagnano il paziente vicino alle proprie emozioni ed al proprio vissuto percorrendo una strada diversa, al confine del sogno.
L’utilizzo successivo in seduta di queste straordinarie fotografie, per quella che è la mia esperienza clinica diretta, riconnette con velocità insperate il paziente al suo lavoro psicoterapeutico in assoluta continuità e legame con il lavoro fotografico.
Le immagini diventano lievito e facilitatore di accesso a ciò che non si vede, che rimane inconscio, segreto, ne favoriscono l’emersione, ne fissano aspetti sfuggenti, consentono di farne esperienza in un gioco reciproco in cui la relazione che ne viene dal fare comune attorno ad un oggetto terzo (l’immagine) facilità il lavoro di cura ed il lavoro comune facilita la relazione.
È un lavoro comune, quindi, una conversazione a più voci, psicoterapeuta, fotografa, paziente, con voci diverse ma armoniche, che ci insegna, come già sapevamo, che per sconfiggere un mostro occorre sapere immaginare e raccontare una storia.
Luca Bonini, psicologo e psicoterapeuta.
Sono più di quarant’anni che mi interesso di fotografia, prima ancora di sapere che sarei diventato un terapeuta familiare, e credo di aver colto molto presto, intuitivamente, che fotografare fosse fondamentalmente un atto relazionale e la fotografia rappresentasse in ogni caso una creazione essenzialmente “simbolico-relazionale”.
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Negli anni ‘80 andai a Roma per formarmi ed ebbi come maestro Rodolfo de Bernart: fu lui a rendermi più consapevole dell’importanza e della potenza dell’immagine nei processi mentali e relazionali. Iniziammo ad utilizzare spezzoni di film, le fotografie di famiglia, e poi seguirono altri strumenti in grado di far emergere immagini interne e produrne di nuove, come ad esempio l’utilizzo dei collage. Pensiamo per immagini, ricordiamo per immagini. La fotografia fissa un’immagine, un tempo, lo cristallizza, ma allo stesso tempo lo rende “eterno” ed è in grado di trattenere in sé e scambiare emozioni, stimolare pensieri e sentimenti. Ho avuto modo di conoscere il lavoro di persone significative nell’ambito della fototerapia come Judy Weiser o Cristina Nuñez per l’autoritratto e, ormai oltre un anno fa, anche il lavoro di Silvia Ettacani.
Credo che quest’ultima esperienza si differenzi almeno su due aspetti:
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attraverso un’azione congiunta, in un set specificamente pensato, si realizza tra paziente e “fotografo” un’esperienza di co-creazione. Il compito è di produrre immagini fotografiche. A mio avviso si configura anche come un’esperienza significativa di scambio intersoggettivo, con potenzialità correttive di quanto vissuto all’interno dei legami familiari.
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quest’ultimo aspetto rende coerente, e auspicabile in alcuni casi, un possibile collegamento, mantenendo allo stesso tempo un’autonomia, con un percorso “parallelo” di tipo elaborativo “classico” di psicoterapia. I pazienti infatti possono o meno trattare all’interno del loro percorso clinico i vissuti di particolare rilevanza attivati all’interno dell’area esperienziale di produzione fotografica.